Sandra

 

Il giorno dopo mi svegliai con il desiderio di chiamare i miei genitori, mia sorella e perfino Santi. Mi stavo allontanando troppo dalla mia vita normale, sembrava che fossi partita per un altro pianeta, che la navicella spaziale fosse andata in avaria e che adesso fossi intrappolata lì. Mi dilaniava il senso di impotenza: se anche qualcuno mi avesse chiesto se mi avevano fatto qualcosa di male, se mi avevano maltrattato o fatto qualcosa contro di me, non avrei avuto niente di concreto da dire. Avrei dovuto parlare di sguardi, di doppi sensi, di sospetti. Sarebbe stato tutto vago: supposizioni e ansie, nient’altro. Forse, se avessi fatto il passo di entrare nella Confraternita, avrei scoperto tutto, ma chissà cosa avrei dovuto fare: non credo che mi avrebbero permesso di essere una di loro senza sporcarmi le mani di sangue e, una volta che lo avessi fatto, avrei dovuto portarne il peso sulla coscienza per sempre. Non sarebbe stato tanto facile uscire dal clan, dalla setta o dalla confraternita. Già non si stava rivelando facile uscire dalla relazione con Santi, e uscire da quello strano gruppo lo sarebbe stato ancora meno.

Dato che Karin si sentiva bene, sicuramente avrebbe voluto che ce ne andassimo a zonzo con il fuoristrada, ma io avevo bisogno di tempo per fare le mie cose. Dopo essermi fatta la doccia, aver rifatto il letto e sistemato un po’, scesi a fare colazione e, come avevo immaginato, Karin era già lì. E più che il rumore, si sentiva il profumo di Frida che puliva. Non appena mi vide - mi stavo preparando un caffellatte - Karin mi disse che aveva un piano per la giornata. Il temutissimo piano.

Splendeva il sole e presi il caffè guardando i rami degli alberi: sopra il lavandino e il piano di marmo c’era un bellissimo finestrone che dava un’aria molto allegra e luminosa alla cucina. Karin si mise a prepararmi una spremuta: non lo fece per me, ma per sé stessa, perché era in condizioni di fare tutto ciò che voleva. Spremette le arance con una vitalità che faceva pensare che si fosse sparata un’altra di quelle fiale. Se era così, voleva dire che gliene erano rimaste solo altre due: non potevo prenderne una, sarebbe stato troppo rischioso.

Il piano consisteva nell’andare a fare spese al centro commerciale. Adorava percorrere i vari reparti guardando tutto, meravigliandosi di quanto fossero bassi i prezzi, degli oggetti tanto graziosi che si fabbricavano al giorno d’oggi. Le piaceva soprattutto il reparto casalinghi, da cui bisognava portarla via con la forza. Io mi mi annoiavo a morte, ma a lei piaceva sprecare le sue energie così, la faceva sentire viva. Poi saremmo andate a ginnastica, l’avrei lasciata lì e avrei avuto un’ora per cercare di incontrare Julián. Avrei rimandato la telefonata alla mia famiglia a quando avessi avuto più tempo. Almeno lo sciroppo mi aveva fatto bene, tossivo di meno.

Ma adesso l’unica cosa che avevo in mente erano le fiale. Ormai mi ero fissata con quella storia. Fred se n’era andato a giocare a golf con Otto e qualche altro «confratello», Frida era al piano di sotto, da dove proveniva il tipico rumore di mobili spostati nello studio-biblioteca, e Karin decise di aspettarmi seduta nella veranda. Le dissi che sarei andata a prendere la borsa, ed era la verità, ma prima di entrare in camera mia passai per quella di Fred e Karin, lasciando la porta aperta per essere sicura che Frida non salisse. Quella donna aveva un sesto senso molto sviluppato e intuiva quando qualcuno tentava di fare qualcosa che andava contro le regole, come stavo facendo io in quel momento. Andai dritta in bagno e guardai dentro il cestino. Dovetti spostare con le dita qualche fazzoletto sporco di muco e Dio solo sa di cos’altro e trovai una delle siringhe. Continuai a cercare e vidi anche l’altra. Karin se n’era fatte due per godersi di più la vita.

Ero nervosissima. Se Frida mi avesse scoperta lì sarebbe stata la fine. Afferrai un pezzo di carta igienica e ci avvolsi le siringhe, poi smossi ancora po’ il contenuto del cestino ed entrai in camera mia, proprio mentre Frida iniziava a lucidare il corrimano delle scale. Uscii con la borsa, la più piccola che avevo, quella che portavo a tracolla. In una tasca interna c’erano le siringhe avvolte nella carta igienica. Pregavo perché Frida non se ne accorgesse, perché qualcosa di più importante attirasse la sua attenzione. Mi vennero in mente un paio di idee, come arrischiarmi a entrare di nuovo nella stanza di Karin, aprire la boccetta di profumo che stava sulla toeletta e mettermene due gocce, sufficienti perché quel mastino di Frida lo sentisse e io potessi giustificare così la mia presenza in quel santuario rosa e dorato. Solo che a quel punto le avrei dato la conferma inequivocabile che ero entrata lì e che molto probabilmente avevo preso le siringhe. Meglio non fare niente ed evitare altri pasticci.

Il corrimano era di mogano istoriato, pieno di curve e fessure in cui entrava la polvere; quando io e Karin ce ne andammo Frida lo stava ancora pulendo. A cosa pensava mentre faceva i mestieri con tanta passione? Presi la borsa di velluto con i ferri e il golfino che stavo facendo, in modo da far credere a Karin che al centro commerciale l’avrei aspettata un po’ lavorando a maglia.

Karin si godeva il panorama. Il sole, sebbene non fosse forte, riscaldava i vetri diffondendo un calore molto gradevole nell’abitacolo. A volte lei chiudeva gli occhi come per riempirsi di vita. In quei momenti pensava mai alle persone che aveva ucciso o aveva aiutato a uccidere, a tutti quelli che aveva privato del calore del sole così, senza un motivo, senza essere neppure spinta da un accesso di rabbia? La guardai con la coda dell’occhio: sorrideva quasi per la pura felicità di sentirsi tanto bene e non sembrava avere rimorsi di coscienza. Sembrava che le importasse solo di sé stessa. Ed era proprio quella mancanza di sensi di colpa a farmi venire il dubbio che Julián si fosse sbagliato e che ciò che mi diceva non fosse la verità. Magari Julián aveva sofferto tanto che non distingueva più i buoni dai cattivi.

Al centro commerciale, dopo aver passato mezz’ora nel reparto giardinaggio, le dissi che avevo i piedi gonfi e che l’avrei aspettata in macchina lavorando a maglia. Lei insistette perché rimanessi, dicendo che solo camminando mi si sarebbero sgonfiati. La verità è che le piaceva avere qualcuno con cui commentare ciò che vedeva, ma io non ero disposta a sacrificarmi, così me ne andai in macchina e mi sentii molto meglio senza la voce di Karin che mi ronzava nelle orecchie. Tirai fuori il golfino che non toccavo da giorni, m’immersi nel lavoro e quasi mi dimenticai di pensare ad Alberto. Alberto il latitante. Aprii il finestrino per lasciar entrare l’aria e il rumore metallico delle macchine che passavano. La vita poteva essere così semplice... una vita tranquilla da pensionati stanchi di fare la guerra che spingono il carrello della spesa e si godono le piccole cose.

Dopo due ore vidi Karin da lontano tra i luccichii metallici e scesi ad aiutarla. Lasciò che spingessi il carrello, non mi chiese se stavo meglio, non mi parlò. Ebbi l’impressione che durante tutto quel tempo, non avendo nessuno con cui parlare, si fosse messa a pensare a me e che quello che aveva pensato non fosse affatto buono. Deglutii. Aprii il portabagagli, ci misi quello che aveva comprato ed elogiai alcuni vasi di terracotta. Mi disse che sollevandoli per metterli nel carrello si era fatta male: per fortuna una donna abbronzata (voleva dire di colore?) alla fine era andata a soccorrerla. Disse «abbronzata» con disprezzo, e usò la parola «soccorrere» perché io sentissi di averla abbandonata. Fui sul punto di dirle che non era obbligata a comprare i vasi se non riusciva a sollevarli, ma questo non avrebbe fatto che peggiorare le cose e farla arrabbiare ancora di più. Avrebbe pensato male di me, e avrebbe avuto ragione. Perciò optai per dirle che mi dispiaceva.

«Mi dispiace tanto, c’è stato un momento in cui avevo lo stomaco sottosopra.»

Le mie parole riuscirono ad addolcirla? Non avrei usato quel termine: lei non pensava a me, pensava solo al fatto che io non avevo smesso di volerle bene, che mi piaceva stare con lei e che solo un’indisposizione poteva allontanarmi da lei.

«Quando arriveremo a casa potrai vedere i miei acquisti.»

Le dissi che non vedevo l’ora di dare un’occhiata a quelle belle cose e proseguimmo verso la palestra. Quel giorno aveva la seduta al mattino e per fortuna, di solito, a quell’ora non si trovava facilmente parcheggio vicino, così lei doveva scendere davanti alla porta e io continuavo a cercare un posto. Pregai che anche questa volta fosse così per potermi avvicinare all’albergo e vedere Julián o lasciargli un biglietto. In caso contrario, mi avrebbe costretto ad entrare con lei; io non avrei potuto rifiutare e, se mi fossi allontanata mentre faceva gli esercizi, se ne sarebbe accorta e mi sarei dovuta giustificare.

Ancora una volta il fatto che la strada fosse intasata di macchine mi faceva comodo, più che comodo. Lei stessa disse che me la sarei vista nera per trovare parcheggio.

Andai direttamente all’albergo. Proprio quando arrivai una monovolume stava lasciando un posto libero praticamente davanti alla porta. Chiesi di Julián alla reception: chiamarono la sua stanza, ma non c’era. Io non volevo tornare indietro con le siringhe, piuttosto le avrei buttate: dovevo assolutamente trovarlo.

Dove poteva essere? Cosa faceva quando non era con me al Faro? Dovevo fare tutto io. Ero stanca, stanca! Uscii in fretta e andai verso il lungomare. Lì c’erano alcuni chioschi che vendevano fiori. Mi avvicinai al primo e comprai il mazzo meno costoso che c’era. Erano fiori di stagione, naturalmente di serra, non profumavano per niente: quelli che profumavano di più erano i boccioli recisi e bagnati. La fioraia cinese li tirò fuori da un vaso facendoli gocciolare e li avvolse nella carta trasparente. Le chiesi un po’ di carta in più e la pregai di fare in fretta, anche se, visto che lo stavo comprando, non volevo che il mazzo venisse una schifezza. Mi diede anche una busta con un biglietto perché potessi scriverci qualcosa.

Mi sedetti su una panchina di fronte al porto e, senza toglierle dalla carta igienica, avvolsi le due siringhe nel cellofan che mi aveva dato la cinese senza capire perché volessi un pezzo di carta che non sarebbe servito a niente. Infilai il pacchettino tra i boccioli. Non si vedeva per niente, e comunque era legato da un fiocco molto grande che avrebbe nascosto qualsiasi cosa. Scrissi nel biglietto:

 

Buon compleanno! Che tu possa trovare sempre fra i delicati boccioli di questi fiori la giovinezza che non si dimentica.

 

Invece di «la giovinezza che non si dimentica» stavo per scrivere «la tua eterna giovinezza», ma mi sembrò troppo esplicito nel caso fosse finito in mani sbagliate. Naturalmente era pura e semplice paranoia, ma non avrei rischiato per una frase. Speravo che, dopo il pericolo che avevo corso, nelle siringhe fosse rimasta almeno una goccia di liquido in buono stato da poter analizzare. Tornai in albergo e lasciai il mazzo alla reception perché lo dessero a Julián quando fosse rientrato.

Poi entrai in un bar vicino e chiamai mia madre.

Cacciò quasi un urlo quando mi sentì. Disse che erano preoccupati per me, che non sapevano dove mi fossi cacciata dopo che mia sorella mi aveva costretta a lasciare il bungalow. Quando si arrabbiava con mia sorella, mia madre chiamava la villetta «bungalow», e da questo dedussi che dovevano aver discusso per colpa mia. Le dissi di non preoccuparsi: stavo condividendo un appartamento con alcune amiche ed ero felice come una pasqua.

«Non devi dirmi nient’altro?»

«No, non c’è altro.»

«Sei sicura?» chiese con quel tono inquisitorio che amava usare quando coglieva in fallo qualcuno di noi.

«Che vuoi dire?»

«Mi riferisco a... lo sai.»

«No, non lo so», risposi per mortificarla, o forse per mortificare me stessa.

«Buon Dio, Sandra, sono tua madre! Non sei mica nata sotto un cavolo!»

Sotto un cavolo? Quando era fuori di sé diceva stupidaggini del genere, per cui pensai che quello sarebbe stato un momento buono come un altro per confessare.

«Ti riferisci ai bambini, ai bambini che vengono al mondo? »

«Sì, proprio a questo. Tua sorella me lo ha detto, non poteva tenersi un peso del genere sulla coscienza. E se ti fosse successo qualcosa?»

Si mise a piangere: ci aveva messo molto più del previsto, date le circostanze.

«Ho detto a tua sorella che non avrebbe dovuto affittare il bungalow, che avrebbe dovuto lasciartelo finché non fossi tornata.»

«Mamma, avrà bisogno di soldi, lasciala in pace. Ti ho già detto che sto una favola.»

Le annunciai che avevo fatto un’ecografia e che il suo nipotino sarebbe stato un maschietto. Le dissi che era un bambino sanissimo, perfetto, e che le passeggiate in spiaggia e la vita all’aria aperta mi stavano facendo proprio bene. Si mise a piangere come una fontana. Niente di ciò che avevo detto coincideva con la sua idea di come avrebbero dovuto essere le cose.

«Hai bisogno di soldi?» mi chiese con voce rotta.

«Ho trovato un lavoro, sto bene», risposi. «Quando le mie amiche se ne andranno potrai venire a trovarmi.»

In fondo mi sentivo più sollevata. Mi ero dimenticata solo di farle promettere che non avrebbe detto niente a Santi, ma non avevo più tempo, dovevo andare a riprendere Karin. E ormai non sapevo più se tornare da lei significasse tornare alla realtà o all’irrealtà più assoluta.

Quando arrivai stava già aspettando sulla porta con la sacca sportiva in spalla. Come sempre, sul suo viso contratto, soprattutto ora alla luce del sole, si leggevano le domande di un interrogatorio a cui non pensavo di rispondere. Non ricorsi neppure alla scusa di aver dovuto lasciare la macchina a casa di Dio e di aver girato finché non era uscita dalla palestra. Mi limitai a chiederle com’era andata la seduta.

«Una meraviglia», rispose.

Lei e Fred parlavano in spagnolo con grande disinvoltura, anche se avevano un accento marcato, ed era buffo sentirli usare espressioni colloquiali come quella.

Karin era stanca e non parlammo molto mentre tornavamo a casa, disse solo che l’insegnante l’aveva messa sotto e l’aveva fatta allenare tanto. Improvvisamente smetteva di essere una strega per trasformarsi in un’anziana piena di problemi. Non riuscì a portare neppure un sacchetto in casa: ogni volta esauriva prima le forze. Dovetti fare tutto io. Appena entrammo, si buttò sul divano. Frida aveva lasciato una zuppa già pronta: era incredibile che avesse il tempo di fare tutte quelle cose e di controllare che non ci fosse un dettaglio fuori posto.

Mentre stavo tirando fuori le cose dai sacchetti, mettendole a posto e dicendole quanto erano carine, lei mi chiese se avevo pensato alla proposta di entrare nella Confraternita. Fred stava cercando di convincere Otto e gli altri ad accettare.

«A questo servono il golf, i pranzi e le cene con gli amici», aggiunse.

Le dissi la verità. Dissi che me ne ero scordata, che non ci avevo pensato e che apprezzavo molto i loro sforzi, ma che dovevano capire che per me era una sorpresa, una cosa che non mi era mai passato per la testa di fare. Si mise a dormicchiare e le sistemai addosso la coperta a scacchi con cui di solito faceva il pisolino. Continuai a mettere a posto le cose con il terrore che da un momento all’altro potesse arrivare Fred, magari con il suo amico Otto.

Adesso non vedevo più Fred con gli stessi occhi. Tra l’uomo che mi aveva soccorso in spiaggia, che mi aveva sollevato con le sue grandi mani, che si era bruciato le piante dei piedi per portarmi dell’acqua e quello che conoscevo adesso c’era un abisso. Il nuovo Fred era una creatura semplice e obbediente e mi sembrava capace di qualsiasi cosa. Se Karin gli avesse detto di uccidermi lo avrebbe fatto, e anche se glielo avesse chiesto la Confraternita. Da quando lui e Karin erano fidanzati avevano vissuto in un gruppo, e per lui la vera legge e la vera giustizia erano quelle del gruppo, tutto il resto era qualcosa che si doveva accettare di malavoglia, senza protestare pubblicamente.

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